La recente pronuncia della Corte Costituzionale ha aperto un estenuante dibattito relativo al tema del doppio cognome. Ma conviene prima di tutto domandarsi: si tratta di un doppio cognome o di un cognome-duale?
Va detto infatti che nome e cognome sono elementi costitutivi dell’identità; ma non è solo la componente identitaria, e non solo dal punto di vista del nascituro, che bisogna considerare per affrontare l’argomento.
Ad esempio, per il padre dare il proprio cognome al figlio equivale in qualche modo a riconoscerlo, a ‘farlo nascere’ simbolicamente. Ai tempi dell’antica Roma, il bambino prima di essere presentato dal padre alla comunità era oggetto vulnerabile e indifeso. Solo dopo il riconoscimento paterno diventava soggetto. Inoltre, è grazie a un cognome che ci si situa in una storia, nella storia da cui proveniamo.
In questa storia noi abbiamo radici ed è da queste radici che ci si può ergere come soggetto con una propria personalità. Già da queste poche righe si intuisce come la recente sentenza sul doppio cognome abbia dei risvolti in diversi ambiti. Non possiamo certo dire che la dinamica del cognome vista finora sia giusta o sia un bene, né che la spinta progressista del doppio cognome allo stesso modo sia giusta o sia un bene.
Un doppio cognome o un cognome-duale?
Non ci sono risposte certe, ogni caso sarà a sé, ogni storia familiare e coniugale sarà unica e ogni figlio vivrà il suo cognome – o i suoi cognomi – in modo diverso. Sicuramente è opportuno leggere questo cambiamento anche in chiave futura in cui l’equi parità dei cognomi potrà, speriamo presto, essere un punto d’inizio anche per l’equi parità dei ruoli paterno e materno al di là degli aspetti religiosi, economici o di genere.
Il nostro compito è porci dei quesiti non certo dare delle risposte e, ad esempio, possiamo interrogarci se la figura paterna non sarà svalorizzata; Lacan parla di evaporazione paterna, del padre assente in una società sempre marcatamente maschilista e patriarcale ma allo stesso tempo maternalizzata.
Oppure potremmo volgere alla soluzione indicata dallo psicoanalista Risè “In una società davvero democratica e libera, il meglio sarebbe che ogni persona, alla sua maggiore età, o successivamente, potesse scegliere qual è il suo nome: della madre, del padre, o di entrambi”; chiedendoci allo stesso tempo se deve essere il figlio ad avere quest’onere. In poche parole, ci sono molti aspetti che andrebbero presi in considerazione.
Alla stregua di ogni considerazione in merito possiamo concentrarci sull’unica esperienza che ci appartiene sin dalla nascita al di là del proprio cognome: l’essere pensati dai propri genitori. È dal pensiero e dal linguaggio che noi nasciamo. Lacan diceva che le parole ci precedono. Prima ancora di essere nati, prima ancora che l’uomo venga al mondo c’è già una storia, un discorso che ci precede. Quanto meno nelle intenzioni, laddove si comincia a discutere del nome, del nome proprio del nascituro. Dai primi giorni di vita, l’infante è alle dipendenze dell’Altro (genitore).
Il cognome e il legame con l’altro
L’uomo nasce prematuro, non deambula, non sa sostenersi senza l’Altro. Nell’interazione con la madre, il nascituro si percepisce maturo e non prematuro. È, appunto, nell’incontro comunicativo con l’Altro che inizia il processo di soggettivazione, di essere non solo presente ma essere anche attore, persona, soggetto. L’idea di soggetto, conscio e Inconscio, secondo Lacan è innanzitutto qualcosa di inscindibile dal linguaggio, essa è sempre intesa nell’accezione di “soggetto parlante”, ovvero di quel soggetto colto nel suo intreccio con il significante in quanto condizione assoluta dell’individualità in generale.
È da quest’Altro e da come esso interpreta il suo grido che il neonato manifesta le sue intenzioni incontrando la voce dei genitori, diventando le loro parole. È interpretando il grido come una domanda che il bambino viene introdotto nel linguaggio. È la madre, il primo Altro-da-sé, che introduce la parola, ed è la parola che distingue l’uomo dagli altri esseri.
Mentre il significato (elemento presente in tutti gli animali) è la risposta all’istinto, il gesto compiuto per soddisfare un esigenza, il coprire un vuoto, è la soddisfazione di una pulsione innata che ci rende vivi ma non evoluti, la parola è quello in più. La madre che dona il latte del proprio seno, o il padre che accarezza e tiene in braccio, e parla allo stesso tempo darà modo al bimbo di introiettare Altro. Sono le parole che accompagnano il gesto, che non soddisfano ma vanno oltre. È da questi pensieri che viene da chiederci se la questione del cognome sia veramente importante.
Dott. Pietro Zingaretti, Ph.D. Neuroscienze, Psicologo clinico, Psicodiagnosta clinico e forense, Cofondatore dello Studio di Psicoanalisi Castelli Romani.